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  • Lo sguardo del sociologo abbraccia per com-prendere
    Studiosi italiani ricordano cent'anni dalla pubblicazione del Trattato di Sociologia Generale di Vilfredo Pareto
    Maria Caterina Federici (a cura di)

    M@gm@ vol.15 n.1 Gennaio-Aprile 2017





    VILFREDO PARETO E LA FINE DEL SOCIALE

    Francesco Antonelli

    fantonelli@uniroma3.it
    Ricercatore di Sociologia generale all’Università Roma Tre.


    Busto di Pareto dello scultore agentino-svizzero Pedro Meylan (1922)

    1. Introduzione: la vittoria dell’Individuo sulla Società

     

    Il mondo contemporaneo è profondamente segnato dal declino delle pratiche e delle teorie sulla Società (Busino 1981): lì dove la modernità industriale è stata caratterizzata dal dominio “organicistico” dell’homo sociologicus, inteso come un attore definito dai suoi ruoli, integrato da strutture impersonali e parte di un sistema conflittuale prevalentemente economico (Dahrendorf 2010; Touraine 2008), la seconda modernità post-industriale e globale mette al centro il primato e l’autonomia dell’individuo.

     

    Questa fine della Società come fonte della moralità e dell’individuazione, al vertice della quale vi era lo Stato-nazione, ha dato vita a tre discorsi teorici, sospesi tra l’euristico e il normativo: il primo discorso promuove l’idea di una società degli individui che si autogoverna e si autoregola nel quadro del mercato globale, vista come la principale istituzione in grado di realizzare un equilibrio tra efficienza e soggettivazione; questo mercato non può comunque essere lasciato completamente a se stesso ma abbisogna di strumenti regolativi in grado di salvaguardare quel equilibrio: gli ordoliberalisti e, più in generale, i neoliberisti condividono questa posizione (Comisso 2017; Felice 2008; Foucault 2005; Röpke 2004). Il secondo discorso mette al centro l’idea di un soggetto personale, definito in maniera giusnaturalistica, che si oppone ai processi manipolativi e di dominio del sistema globale di potere. Questa idea di soggetto è anche la pietra angolare di ricostruzione possibile di un nuovo mondo caratterizzato dall’“universalismo delle differenze”: tra gli altri, Alain Touraine (2013; 1988), Martha Nussbaum (2013) e Nadia Urbinati (2011) condividono questo orientamento liberal. Il secondo discorso Infine, il terzo discorso ruota intorno ad un’idea di Sé desiderante e creativo che, attraverso idee come quelle di “moltitudine” (in luogo della categoria moderna di “popolo”) e di “comune” (al posto di quella di Stato o di pubblico) ambisce a ricostruire un sociale che si auto-governa rompendo con il capitalismo globale: Toni Negri (2003) e Paolo Virno (2014) e, più in generale i post-operaisti ma anche una parte dei foucaultiani, si riconoscono in questa visione radical.

     

    Una delle radici culturali di questa vittoria teorico-pratica dell’individuo sulla Società è rintracciabile negli studi di Vilfredo Pareto. Prendere in considerazione le sue posizioni risulta importante anche per comprenderne le ambiguità. Nel primo paragrafo ci concentreremo sulle sue posizioni giovanili per poi passare ad analizzare quanto da egli sostenuto nel Trattato di sociologia generale (1916). Infine, nelle conclusioni cercheremo di sviluppare alcune considerazioni riferite ai discorsi contemporanei centrati sul soggetto.

     

    2. Contro la Società: gli scritti giovanili

     

    Vilfredo Pareto compie una traduzione in termini scientifico-analitici della tradizionale dottrina della natura umana come fondamento delle azioni sociali. Ne deriva che queste sono prevalentemente non-logiche (cioè guidate da motivazioni quasi mai realmente dichiarate dal soggetto agente e non riconducibili all’azione della razionalità) e che il baricentro di ogni teoria sociale che ambisca ad essere scientifica non può che essere l’individuo. Come nota Maniscalco (1994), se negli scritti giovanili Pareto esprime posizioni nettamente contrarie all’idea di Società nel suo capolavoro della maturità, il Trattato di sociologia generale (1916), sono rintracciabili due diverse immagini di società opposte e compresenti:

     

    «una prima più legata alle originarie intuizioni la vede come un insieme di membri definiti attraverso criteri di similarità e di opposizione, creatori di legami sociali emozionali che traggono la loro forza dalla sacralità dei residui ma, al tempo stesso, portatori di istanze ed interessi che li contrappongono anche con la violenza. L’altra rappresenta l’ordine razionale della vita collettiva, la composizione e la cristallizzazione in un equilibrio (pro tempore stabile) dei rapporti (anche dei più intensi); la società è allora concepita come un tutto a cui l’individuo appartiene, con il quale si identifica e dal quale in un certo senso resta determinato» (Maniscalco, op. cit.: 54).

     

    Rifiutando già nel Cours d'économie politique (1898) l’ipotesi dell’emergenza, dalle singole azioni individuali, di una realtà di livello superiore (la Società, appunto) ed indicando ne “I problemi della sociologia” (1898) le azioni elementari come molecole da cui risalire per spiegare i fenomeni più complessi, è nelle due recensioni al Suicidio di Durkheim e all’Animo delle folle di Giddings che emerge più compiutamente il suo rifiuto per ogni genere di “collettivismo ontologico”. Nella prima leggiamo, infatti:

     

    «Durkheim ci confessa che la sua concezione è stata tacciata di “scolastica” […] e che gli è stato rimproverato di “dare come fondamenta ai fenomeni sociali […] Un principio vitale d’un genere nuovo”. Effettivamente è proprio l’impressione che si ricava dalla lettura del suo libro. Egli sembra dare delle astrazioni metafisiche come cause di fenomeni reali, e ciò è inevitabile con teorie come quella della “forza vitale”» (Pareto 1980).

     

    Nella seconda, si legge invece che: «Giddings parla della società come di un essere avente un senso ed una volizione. Generalmente, i socialisti seguono codesto indirizzo, credendo con ciò di combattere il cosiddetto “individualismo”» (Pareto 1980). Per Pareto dunque, come ribadito successivamente anche al “Congresso Internazionale di Filosofia” del 1904 (Ginevra) nella sua relazione significativamente intitolata “L’individuale e il sociale”, non esiste altra realtà che può essere oggetto di studio che non siano i singoli individui e le loro relazioni. Da una parte, essi per il semplice fatto di vivere l’uno accanto all’altro e di interagire tra loro acquistano nuovi caratteri, pur rimanendo individui; dall’altra, l’idea di Società è solo un costrutto ideologico, funzionale sia all’acquisizione del potere da parte di coloro i quali fanno leva sul sentimento di nostalgia per un mitico passato comunitario (tipicamente, per Pareto, i socialisti di tutte le tendenze) sia un fattore di coesione “reale” tra gli individui stessi. Nell’epoca del collettivismo montante sia da sinistra sia da destra, da liberale sui generis, Vilfredo Pareto vede così nella sociolatria e nello statalismo la base di un nuovo dominio potenzialmente “totalizzante” e ostracizzante: «l’opposizione tra una parte degli individui componenti un aggregato è sovente qualificata l’opposizione tra gli individui e la “società” […] L’aggregato più piccolo deve contentarsi del nome un po’ screditato d’individuo, la parte più grossa del titolo rispettabile di società» (Pareto 1980). Chi detiene il potere o sta per acquisirlo egemonizzando la cultura, pretende di parlare in nome della maggioranza et della Ragione – cioè della Società, intesa in termini che ricordano la “condensazione” istituzionale della Volontà generale di Rousseau – e usa questo appello per isolare e screditare gli oppositori, tacciati di egoismo e miope meschinità.

     

    3. Il Trattato di sociologia generale: individui e sistema

     

    Nel Trattato di sociologia generale (1916) Pareto sviluppa una concezione in parte alternativa rispetto a quella centrata sull’idea di Società, che arricchisce in complessità le sue posizioni giovanili.

     

    Le due chiavi di volta del modello analitico paretiano sono i concetti di eterogeneità sociale e di sistema, attraverso i quali egli cerca di spiegare le forme e le vicende che caratterizzano i collettivi umani istituzionalizzati. L’eterogeneità sociale indica la diseguale presenza di attributi socialmente rilevanti tra gli individui, tali da dar vita a un insieme di parti eterogenee in continua interazione associativa e disgiuntiva. Da questi processi – come avviene mutatus mutandi nel campo dell’economia secondo il modello di Walras al quale Pareto aderiva – si sviluppa tuttavia un equilibrio, la forma generale che assume una società in quanto insieme non casuale, cioè sistematico, di elementi che, pur essendo in lotta tra loro, giungono ad uno stato di reciproco aggiustamento. Questo equilibrio è tale che: «se vi si introducesse artificialmente una qualche modificazione, diversa da quelle che prova realmente, tosto si avrebbe una reazione che tenderebbe a ricondurlo allo stato reale» (Pareto 1916: § 2068). Questo sistema una volta costituitosi tende a far si che i fatti e le dinamiche che in esso si sviluppano assumano una forma particolare e caratteristica di un determinato equilibrio: «non sono più interamente arbitrari i fatti che in esso seguono, ma che occorre che soddisfino a certe condizioni» (Pareto, op. cit., § 2089). Da questo, deriva una certa oggettivazione apparente dei “fatti sociali”, in particolar modo di quelli che ineriscono alla sua stessa esistenza. Tuttavia, questo non apre le porte alla concettualizzazione della Società come entità quasi-metafisica indipendente dalle sue componenti e superiore ad esse; al contrario, come risulterà a questo punto evidente se si fa riferimento alla concezione paretiana del primato della politica: «il raggiungimento dell’unità non solo è problematico ma è frutto di un’azione politica intenzionale […] (poiché) a partire da un equilibrio costituito, la tendenza dominante ed inevitabile non è verso l’autoconservazione, ma verso l’autodistruzione» (Maniscalco, op. cit.: 75).

     

    Affinché una società si tenga insieme occorre, innanzitutto, la presenza di un potere centrale che sia in grado di mantenere la coesione con il consenso e con la forza (Maniscalco 1983), avendo l’élite politica le qualità richieste dalla situazione – tuttavia, una condizione che nel lungo periodo è destinata inevitabilmente a venir meno. In secondo luogo, tra le proprietà del sistema che Pareto enfatizza particolarmente nel Trattato, vi è il tema dell’“utilità” o prosperità della collettività (Fiorot 1985). Essa è variabile e intrinsecamente soggetta ad una molteplicità di interpretazioni e, dunque, di applicazioni pratiche, essendo il sistema composto da parti eterogenee e tra loro differenziate nelle qualità, interessi e passioni prevalenti. Pareto distingue così due forme che il problema innanzitutto politico del raggiungimento della prosperità sociale può assumere: il massimo di utilità di una collettività e per una collettività. Nel momento in cui si osserva politicamente come unità, la collettività è attraversata da una tensione, variamente componibile in base ad un processo non-logico ma, appunto, politico fatto di negoziazioni, rapporti di forza e propaganda, tra gli obiettivi collettivi di potenza, rafforzamento e tenuta (che richiedono risorse economiche “sottratte” ai singoli) e quelli individuali di arricchimento personale. Pareto pone la persistenza degli aggregati alla base di quei sentimenti e di quelle spinte che facilitano quei meccanismi di inganno e auto-inganno mediante i quali l’élite di governo è in grado di affermare una certa concezione di bene comune; che non ha dunque nulla a che fare con quella presunta Razionalità che sia il positivismo tecnocratico che le filosofie dialettiche, vedono alla base della Storia. Al contrario:

     

    «i fini collettivi non sono riducibili a livello di dati su cui si svolge il ragionamento “logico-sperimentale”, ma si situano e si articolano nell’ambito dei processi residuali e delle derivazioni necessari per far scaturire il consenso all’azione politica, cioè l’accettazione dell’imposizione di una specifica configurazione dei fini stessi […] Poiché il bene comune, valutabile in base ad opzioni di valore, non può essere sempre ottenuto avvantaggiando i cittadini singolarmente, ma anzi spesso, al contrario, sottoponendoli a più o meno gravosi sacrifici» (Maniscalco 1994: 77-78).

     

    Per il Vilfredo Pareto della maturità, dunque, la società (da scrivere con la lettera minuscola) è un sistema essenzialmente volontaristico, precario e tutto politico piuttosto che il sicuro punto di riferimento, la fonte della moralità e la garanzia delle obbligazioni giuridiche che, pur riconoscendone le vulnerabilità, aveva in mente Durkheim. La sua organizzazione interna è frutto di compromessi tra irriducibili diversità e istituzionalizza rapporti di forza che si reggono sugli interessi e sulle passioni pubbliche, mentre qualunque sistema ideale è in fondo un’ideologia: l’anomia messa in moto dal dinamismo dello sviluppo sociale, tecnologico ed economico non lambisce la società, poiché per Pareto essa non gioca le sue sorti su un qualche genere di rapporto con la morale e il diritto, con il buono e con il giusto. Ogni forma sociale storica è comunque destinata a perire e ad essere sostituita da una nuova forma, diversa per contenuti ma identica alla precedente quanto a metodi e sostanza: la politica e il potere sotto il primo aspetto, la complessità della natura umana sospesa senza soluzione di continuità tra emozioni e razionalità.

     

    4. Osservazioni conclusive: la fine della Società e le sue ambiguità

     

    Riconoscendo in Vilfredo Pareto uno dei precursori delle teorie sulla fine della società e la centralità dei soggetti personali, possiamo indicare tre elementi principali della sua analisi utili a mettere in luce limiti e contraddizioni di questo orientamento nelle scienze sociali contemporanee. In primo luogo, per Pareto il primato analitico e fattuale degli individui sul quel ente giudicato metafisico che è la Società, comporta il riconoscimento dello stretto intreccio tra sentimenti e razionalità nell’agire dell’attore sociale. Questo vuol dire che tanto la vita individuale che la risultante vita collettiva è dominata da motivazione e pulsioni tutt’altro che nobili: l’individuo non è la fonte del riscatto morale e sociale ma va guardato realisticamente, scritto con la “i” minuscola ed assunto nell’analisi per ciò che è. Le teorie contemporanee sulla fine della società, al contrario, tendono ad esaltare una visione prevalentemente idealizzata del soggetto personale e di quella cultura intimista della quale è intrinsecamente portatore, opponendone le virtù emancipative ai vizi di una collettività preda del potere e dell’impersonalità: un errore particolarmente marcato nel caso della versione liberal della fine del sociale, per la quale il soggetto personale si afferma al di fuori della storia e della società ed è sempre vettore di un’illuministica affermazione dei diritti e della dignità. In secondo luogo, Pareto nel rifiutare l’idea di Società la sostituisce con quella di sistema sociale, una categoria necessaria a dar conto della non-casualità dei processi sociali e dell’insorgere di effetti non previsti né desiderati dell’azione individuale.

     

    Mentre questo espediente teorico mostra da un lato la necessità di ricorrere ad un qualche genere di categoria analitica extra-soggettiva per dar conto del sociale (aprendo al superamento dell’individualismo metodologico puro) dall’altra evidenzia come le prospettive contemporanee sulla fine del sociale rimangano sterili lì dove si concentrano quasi esclusivamente sui soggetti singoli: l’alternativa nella quale si dibattono è tra una micro-sociologia miope e il recupero di una qualche prospettiva sistemica che però finisce per invalidare i presupposti di partenza dell’analisi stessa. Infine, Vilfredo Pareto fonda la possibilità dell’equilibrio del sistema sociale sul ruolo svolto dalla politica, dal potere e dalle classi dirigenti (élites). Uno degli elementi più deboli della maggior parte delle teorie contemporanee sulla fine del sociale è la sostanziale depoliticizzazione alle quali, al contrario, conducono; un difetto particolarmente marcato nel caso dei liberal e dei radical: entrambi si affidano ad un’esaltazione di estemporanei movimenti sociali, finendo per lasciare alla sola versione neo-liberista il compito di sviluppare una teoria e pratica politica delle istituzioni. Ne deriva una sterilizzazione di quella critica sociale della quale pure queste prospettive sono portatrici.

     

    In conclusione si può dunque affermare che le teorie e le analisi di Vilfredo Pareto – oggi, tra i “classici”, uno dei più trascurati – continuano ad offrire spunti di grande interesse per capire il mondo contemporaneo e quell’intreccio tra teoria e pratiche sociali che, mettendo al centro senza il necessario equilibrio teorico il soggetto personale, non consentono più di decodificare il rinato bisogno di sociale che caratterizza la nostra epoca post-crisi. Una sfida teorica e pratica troppo importante per essere lasciata esclusivamente ai neo-comunitaristi di turno.

     

    Riferimenti bibliografici

     

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